Prendersi Cura delle Ferite del Prossimo

Napoli – 24/11/2021 – Comunità internazionale Dzogchen di Namdeling presso l’Associazione il Pettirosso – si è tenuto “IN PRESENZA” l’incontro del gruppo “SPIRITO DI ASSISI”, programmato dal Centro Studi Francescani per il Dialogo Interreligioso e le Culture, sul tema “L’architettura della pace.”

Il prendersi cura delle ferite del prossimo richiede due qualità principali: la benevolenza e l’intelligenza, ovvero l’abilità di saper realmente aiutare gli altri, che sono due aspetti inscindibili.

Vi è una storia che illustra la sterilità della benevolenza senza intelligenza: una donna senza né braccia né gambe, vede suo figlio piccolo buttarsi in un fiume e per salvarlo dall’annegamento, si lancia in acqua; ma muoiono entrambi.

Il mahayana è il veicolo dei valorosi che consacrano la propria vita al completo risveglio per il bene di tutti gli esseri senzienti; il lojong riassume l’addestramento della mente-cuore teso al superamento delle abituali visioni egocentriche e della confusione che pervade la nostra esperienza e al risveglio delle qualità innate di apertura, di chiarezza e di disponibilità.

Proprio come la terra e gli altri elementi in abbondanza e perennemente

provvedono ai bisogni degli esseri in una miriade di modi,

Possa anch’io, in tutti i modi possibili,

Provvedere agli esseri che riempiono lo spazio

finché tutti loro non avranno raggiunto il nirvana.

(Santideva, Bodhisattvacharyavatara, La via del Bodhisattava)

La duplice aspirazione di un bodhisattva, il risveglio e il bene di tutti i viventi, umani e non umani, amici o nemici, caratterizza il sentiero Mahayana.

Tre Livelli di bontà amorevole e compassionevole

Gampopa (1079-1153) nel suo lamrim “Il Gioiello magico del Dharma supremo” identifica tre tipi di bontà:

  • bontà con riferimento agli esseri;
  • bontà con riferimento alla realtà; e
  • bontà senza riferimento.

Si verificano consecutivamente.

La bontà con riferimento agli esseri emerge con il superamento dell’indifferenza verso la sofferenza, con la sensibilità verso il dolore degli altri e con l’aspirazione a impegnarci per alleviare la loro sofferenza.

La bontà con riferimento alla realtà emerge quando realizziamo la realtà della sofferenza e della sua origine nell’ignoranza fondamentale; quando percepiamo effettivamente come gli esseri creano la propria sofferenza, accecati dalla loro ignoranza, dalla loro confusione mentale, come tutti si sforzano di essere felici e di evitare la sofferenza, ma come, con comprendendo le cause del dolore e della cessazione della sofferenza, generano sempre ulteriori cause di sofferenza.

La bontà senza riferimento emerge quando si supera qualsiasi nozione di soggetto, oggetto o intenzione; è la forma ultima della compassione di un buddha o di un grande bodhisattva e dipende dalla realizzazione della vacuità. Non c’è più alcun riferimento a un “sé” o a un “altro”. Questa compassione è apertura, accoglienza e disponibilità vissute in modo naturale e spontaneo.

È importante conoscere questi tre livelli di bontà e iniziare a lavorare dal primo, che è il più accessibile per noi.

Il film “Le Vie del Signore Sono Finite” di Massimo Troisi offre alcuni elementi di riflessione. Il protagonista è Camillo che soffre d’una malattia psicosomatica, ha perso l’uso delle gambe senza avere tuttavia alcuna lesione organica. Leone, il fratellastro, lo ha sempre curato amorosamente in casa, trovando finalmente uno scopo alla sua vita di fallito, con un carattere molto infantile. Leone non desidera, in fondo, che il fratello guarisca.

Per la gioia di un possibile riavvicinamento con la sua fidanzata, Camillo guarisce e ritorna a camminare. Il fratellastro Leone, che si è sempre preso cura di lui, quando viene a sapere della guarigione del fratello, rimane spiazzato e ammette che gli viene a mancare lo scopo della sua esistenza, ovvero accudire il fratello malato.

Quando pensiamo di fare del bene agli altri, dobbiamo cercare di comprendere se la nostra motivazione è autenticamente pura e se effettivamente stiamo aiutando gli altri.

Tong len

Riconoscendo tutti i difetti in noi stessi

E un oceano di qualità negli altri

Dobbiamo rinunciare completamente all’egoismo

E prenderci cura solo degli altri.

Immaginando persone inferiori (superiori o uguali) al nostro posto

E noi stessi al posto degli altri,

Con una mente libera da altri pensieri

Dovremmo meditare sulla gelosia, la competitività e l’orgoglio.

Proprio come le mani e le altre membra

Sono considerate parti del corpo,

Perché tutti gli esseri senzienti

Non dovrebbero essere considerati

parte di un enorme organismo vivente?

Se non scambiamo completamente la nostra felicità

Con la sofferenza degli altri

Non raggiungeremo mai l’illuminazione

E anche nel samsara non avremo felicità. ”

(dal Bodhicaryavatara, La via del Bodhisattava, di Shantideva, VIII sec. d.C.)

Tong len è la pratica che consente di sviluppare l’amorevole gentilezza, la nobiltà di cuore, ci consente di sviluppare il risveglio della mente-cuore nelle situazioni relazionali.

Tong len è un termine tibetano: «tong» che significa mandare o anche lasciare, e «len» che significa ricevere, e che alcune volte si traduce anche con prendere.

La pratica del dharma è l’apprendistato ad una relazione giusta con l’alterità, con «gli altri in noi»: i nostri pensieri, le emozioni, noi stessi… e con l’alterità esterna: gli altri e tutte le situazioni.

L’attitudine abituale generata dalla nostra visione egocentrica è di rigettare ciò che è sgradevole e attaccarci a ciò che è piacevole. Con questo atteggiamento siamo coinvolti in una lotta continua che porta ad una continua sofferenza.

La pratica del tong len ci fa superare il nostro atteggiamento ego-centrato, abbandonando ogni barriera fra noi e l’altro e coltivando «lo scambio di sé con l’altro»

Con la nostra voce possiamo anche pronunciare queste parole di potenza:

Quando sono felice, offro tutti i miei meriti agli esseri:

Possano i benefici e la felicità riempire lo spazio!

Quando soffro, prendo su di me la sofferenza di tutti gli esseri:

Possa io drenare l’oceano di sofferenza!”

(da La Lampada che illumina il cammino della liberazione):

Ci si addestra ad accogliere pienamente, senza rifiuti, in modo rilasciato, con apertura e trasparenza. Non si tratta di prendere sulle proprie spalle un fardello. Si tratta piuttosto di

imparare ad accettare scomparendo, mettendoci tra parentesi.

L’offrire agli altri ci fa abbandonare la mentalità di povertà, che è dovuta al nostro attaccamento, e ci fa scoprire la ricchezza autentica del dono.

La meditazione inizia con il toccare la nostra sensibilità profonda, che si nasconde dietro la corazza che vestiamo abitualmente. Pensiamo ad una persona cara, ad esempio nostra madre, e la immaginiamo in una situazione difficile. Siamo toccati, siamo ricettivi del suo dolore e disposti ad offrire il nostro aiuto.

Si medita associando questa disposizione d’animo alla respirazione. Inspirando c’è l’accettazione di ciò che è doloroso e difficile, Immaginiamo di inspirare fumo scuro che, nel più profondo del nostro cuore si dissolve, svanisce.

A questo punto c’è un istante libero da ogni fissazione.

Poi, dal più profondo del nostro cuore offriamo tutte le nostre virtù, tutto ciò che abbiamo di positivo, immaginando di irradiare fumo chiaro, luminoso. Si inizia immaginando una situazione particolare, con la persona a cui siamo maggiormente legati affettivamente, come ad esempio nostra madre.

Ripetiamo la pratica con le persone a noi indifferenti, con le persone verso cui proviamo avversione e infine con tutti i viventi.